L’IO TRA MITO E FAVOLA

(Catalogo Identità Mutevoli, Roma 2019)

 

In quel momento io e il mio avatar stavamo osservando gli sfondamenti cartacei e le piegature di Carla; si dibatteva sul significato concettuale al quale assegnarli quando Nabokov suonò alla porta. Diversamente dal solito era alquanto concitato. Voleva raccontarci come lui e Tamara si erano lasciati, ma per quanto si sforzasse tutto gli riusciva molto annebbiato. Tuttavia, in quei brevi momenti, di lei (e anche di se stesso) schizzò con notevole fluidità un profilo a cui io e il mio avatar abbiamo successivamente pensato ogni volta che il discorso o una lettura cadevano sul tema dell’identità personale. Un po’ era a causa di Carla per quel suo assaltare la rappresentazione di monumenti e volti quasi a volerne mostrare la caducità e un po’ opera di Vladimir. Il quale, in quell’occasione, cominciò a raccontare di sé dicendo che all’epoca della sua relazione con Tamara era assorbito nella ricerca di quel genere di esperienze che pensava fossero strettamente necessarie a un elegante littérateur. Sul rapporto con lei disse invece alcune cose il cui senso era depositato per l’eternità in un lavoro filosofico di David Hume che si intitola Treatise of the Human Nature e che, alla nostra prima lettura, da matricole di filosofia qualche millennio fa, ci aveva turbati. Confesso che ritrovarne le linee di forza nelle parole di Nabokov ci sorprese, anche se non posso negare che avevamo fatto esperienze più forti leggendo Borges. Quelle sue frasi erano però di una nitidezza esemplare. Diciamo che colpivano. «Osservando quella fase dall’alto della mia torre presente – finì così il suo racconto – mi vedo come un insieme di cento giovani diversi e tutti all’inseguimento della stessa fanciulla mutevole, in una serie di storie d’amore simultanee e sovrapposte, alcune incantevoli, altre sordide, che andavano da avventure di una notte a legami e inganni più duraturi, sempre con risultati artistici scadenti. L’esperienza in questione, e le ombre di tutte quelle affascinanti signore, non soltanto sono inutili a ricomporre il mio passato, ma determinano addirittura un fastidioso effetto fuori fuoco, e per quanto io armeggi con le viti della memoria non riesco a ricordare come Tamara e io ci lasciammo». Non ci volle molto per capire che anche lui era dei nostri. Anche lui aveva compreso, pur non dicendolo espressamente, che i cosiddetti continuanti umani, cioè ognuno di noi, hanno in mano un solo, flebile, mezzo per rendersi riconoscibili nel tempo a se stessi e agli altri: il nome proprio (attestato da una sdrucita carta d’identità). Avrebbero qualche chance in più se l’io non fosse cavo e vuoto, come sosteneva Montaigne, e la memoria – compagna infedele – non si svagasse con scherzi immondi depennando (e talora resuscitando) dall’oscurità magmatica delle proprie giacenze nomi, facce, episodi, di importanza variabile nella nostra vita. Questa attitudine della memoria a perdersi e a lasciar perdere, ammesso che si possa dire così, non è l’ultima, né la meno importante, fra le imperfezioni che assediano gli umani facendone degli esseri che devono continuamente rifarsi il trucco.
Come non lo sapesse o volesse fingere di ignorare tanti nostri precedenti discorsi, il mio avatar mi domanda un po’ stralunato: rifarsi il trucco? Suppongo intenda avere chiarimenti sul ‘come’. Ma nel modo più semplice e consono, gli rispondo con la stessa insofferenza già dimostratagli in mille altre occasioni. Parlando, a-scoltando, correggendosi mutualmente. Io penso, e da sempre, che solo così non si finisce chiusi nella bolla della propria irreale e fantasmagorica sufficienza.

L’hanno detto in molti che fare in mille pezzi lo scafandro non è solo necessario e utile. È anche augurabile e vantaggioso nei confronti dei proches e dei meno proches, benché ciò implichi l’accettazione di una sorta di controllo altrui che è poi dello stesso tipo che, senza mai averlo deciso, noi stessi esercitiamo da sempre sui nostri interlocutori da prima ancora che il meccanismo della riflessività, con la schiera di avatar ch’esso gemma in continuazione per rinnegarli subito dopo, cominci a inocularci l’illusione che sia la coscienza a dirigersi verso il corpo e il mondo e non invece il corpo proprio a generare la coscienza di noi e del mondo.

I pensieri volano come sempre e mi viene in mente Philip Roth. È lui ad avere dato una smossa, credo in The Counterlife, a un pensiero del genere, ed è singolare che lo faccia non prima di avere dedicato una certa attenzione ai poteri dell’immaginazione. Vado a memoria, ma sono certo che ne parla come di una facoltà più ricca di realtà della realtà stessa. Chissà se lo sapeva, l’inesauribile Roth, che le sue dieci righe liberavano i due capi di un nodo teorico che Hume, nel primo trentennio del XVIII secolo, aveva consapevolmente disfatto per noi, per il nostro utile, per rendere il nostro sguardo meno servile ...
Mi chiedete del nodo? Il nodo era costituito dall’io, semplicemente dall’io. La tesi humeana dice che l’io è un mito. Quella funzione indistinguibile dalla nostra iden-tità che consideriamo come una fiaccola sempre accesa, che si assopisce con noi ma che è prontissima a dirci che siamo svegli quando lo siamo, quella presenza continua e integerrima che non ci abbandona mai, insomma quella funzione asso-luta di autocentramento dalla quale si presume che l’individuo non possa staccarsi senza perdere se stesso, non è che una favola o una burla. E a giustificare la tesi scriveva poche parole cristalline: quando entro in me stesso, trovo ora una perce-zione di amore, ora di odio, ora di umido, e così via… ciò che non trovo mai è il mio io. Dato poi che le percezioni, che di volta in volta arrivano al centro di quel teatro senza pareti che è la coscienza, sono divise fra loro da un bit di tempo in-credibilmente piccolo, ma pur sempre indicativo di un vuoto incolmabile, ecco all’opera l’immaginazione. Con lei, forza gentile, tutti gli intervalli fra le percezioni vengono aboliti. L’immaginazione è come un cemento che tappa i buchi. E con quale utile per tutti coloro che abitano nella repubblica del Cogito! Peraltro, il fatto di avere smascherato la funzione derisoria dell’immaginazione rende ancora più acuta la consapevolezza che la coesione indistruttibile da sempre pretesa dall’io dei filosofi, quella durezza diamantina che credevamo dipendesse da naturali cordes de nécessité, come diceva Pascal, non è in realtà che un portato fasullo: niente cordes de nécessité, solo e unicamente fragilissime cordes d’imagination.

Il mio avatar del momento mi pone una domanda il cui tenore già conoscevo: ma il gioco, ‘questo’ gioco dalle regole tanto aleatorie, vale la candela? Sì, gli rispondo con un certo eccesso di ottimismo storico dal quale non riesco a liberarmi. Solo facendo scomparire i vacua che renderebbero la nostra vita indifendibile, riusciamo a dare continuità, benché apparente, a ciò che siamo. Però, mentre gli parlo in questi termini, m’accorgo della solita ombra che arriva a inficiare quanto sto dicendo. È l’ombra di un’altra complicazione. Volete definirlo iI problema dell’autenticità? Il problema che angustiava Rousseau – sapere ciò che si è, saperlo a ogni costo – riemerge sempre e induce il più temerario degli interrogativi: è meglio non ignorare che i continuanti sono in realtà un assemblaggio di percezioni che si aggiungono una all’altra come i segmenti di un anelliforme, e quindi un’architettura artificiale e storica di sopravvenienze, oppure è preferibile sprofondare nella soffice inazione dell’apparenza e credere di essere ciò che l’immaginazione ci fa credere?

Naturalmente, è impossibile decidere (e ora è troppo tardi per chiederglielo) se Roth conoscesse quell’indocile puppy dog della filosofia che risponde al nome di Hume. In ogni caso, quando leggiamo nei suoi libri che vivere in società significa riconoscere che ciascuno è autore degli altri e che quindi tutti patiscono, nel senso forte di patire, l’esame e a volte solo lo sguardo di coloro coi quali si intessono re-lazioni, Roth innesta idee humeane nel descrivere il processo bidirezionale e mul-tivariato per il quale il guardare e l’essere guardati non è mai un do ut des neutro e lineare, a scambio eguale.

Ecco, io penso a questo scambio altamente ineguale se mi soffermo sull’effetto che producono in me i volti di Carla e quei suoi monumenta sottoposti al dissesto immaginativo di una manipolazione che potrebbe diventare più reale del computer sul quale scrivo. Li osservo, volti e monumenta, e molto spesso m’accorgo di ritenzioni che diventano immediatamente tensioni: cosa si cela dietro quegli occhi? Quali slittamenti di significato rombano assordanti nella facciata squilibrata di Palazzo Venezia? Ce lo dicono le nostre tensioni di giudicanti (fig. XIII). E ce lo dirà il comune umano che riuscirà a sopravvivere ai differenti inganni che abitiamo da sempre, con le nostre differenti patologie e i nostri differenti sistemi di attese. In ogni caso, grazie a Carla e alle sue pieghe cartacee attentamente lavorate, cavalchiamo fughe di significati. I cui effetti saranno dei salterelli darwiniani nel nostro apparato concettuale, saranno degli up and down di umori e pensieri inusuali, comparabili a svolte della vita forse calamitose. Fateci caso, Carla lavora senza tondi (e quindi, suppongo, tendenzialmente incredula davanti a pretese di felicità barocca). Nello spazio invisibile di quelle pieghe immaginiamo che si installino quelle che i latini chiamavano affectiones. Ossia, le passioni: l’amore, l’odio, la venerazione, la paura, lo sdegno, ecc. Ed è qui, è in questa chiamata, la decisività dell’immaginazione. Perché decisiva? Perché il sopravvenire di un’affezione causata dall’immaginazione porta nella mente una cosa che non c’era. Spinoza scriveva quatenus sola in Mente versatur, una frase che – letta à la Hume – potrebbe significare che forse verrà tappato un intervallo fra una percezione e l’altra, chissà, quindi una cosa che potrebbe agire da fattore precipitante nelle possibili reazioni che l’altro avrà, dopo la collisione col nostro sguardo, nella trama che s’ingranerà grazie alle parole che proferiremo. E le conseguenze dell’incontro io/tu, che l’ottimismo e l’esperienza ci avevano fatto credere prevedibili, potrebbero rivelarsi tutt’altro che scontate. La nostra risposta, come la risposta alla nostra risposta, potrebbero diventare prede di un turbine che non riusciremo a smorzare se non agendo su noi stessi con un forte atto di volontà, per il quale non si può non prevedere l’assistenza di ragioni derivate da un’autentica morale vissuta.  

Inutile dire che di tutto questo rimuginare parlo spesso col mio avatar. Il quale mi risponde (ovviamente) con i miei argomenti, ma non prima di avermi fatto pe-nare con obiezioni, contro-obiezioni, eccezioni, giri strani, compresa la perlustra-zione di quell’angolo, filologicamente humeano, in cui l’io come flatus vocis, pura e semplice parola alla quale non corrisponde effettivamente nulla, si eclissa per trasformarsi d’emblée nella realtà della quale sono certo al di là di ogni dubbio. Sì, va detto senza esitazioni, nessuno come Hume è stato capace di rovesciamenti tanto temerari e imprevisti. Ha appena distrutto la realtà dell’io sul piano della di-scussione razionale (dell’understanding, come lui scriveva) e che fa? Doppio salto mortale, tuffo carpiato, salto dall’elicottero sull’oceano in tempesta, quello che volete! Con voce suadente e piana, eccolo venire verso di noi con in mano il rega-lo che non ti aspettavi e cioè con l’io, con la sua funzione pienamente ricostituita, col peso della sua presenza assoluta, ma questa volta sul piano inargomentabile del sentire. In altri termini, l’io, che l’intelletto mi dice inesistente, dovrebbe vive-re nel sentimento acutissimo che ne ho. Anzi, a essere precisi, fra le cose certe, l’io sarebbe la più indiscutibilmente certa della quale vantarmi. Che l’individuo sia dunque un campo di battaglia, ove si fronteggiano fino all’estenuazione due tipi di effetti, quelli derivabili dall’applicazione dell’intelletto e quelli prodotti dalla forza gentile e ingannevole dell’immaginazione?

Mi dico spesso (il mio avatar mi dice) che non si sbaglia nel vedere l’uomo come un campo di battaglia. Dopotutto, è quel che hanno sempre fatto i filosofi, da Platone in poi. In tempi recenti, la filosofia ha ripreso in mano questi fili e ha tradotto la cosa affermando che l’esperienza resta inevitabilmente opaca nonostante tutti gli sforzi per renderla trasparente. Esistono però delle strade, che a occhio nudo potrebbero sembrare sia filosofiche che no, ma che, indipendentemente dalla decisione a questo riguardo, sembrano in grado di rendere le difficoltà piuttosto comprensibili e in un certo senso dominabili. Una è quella suggerita da Balzac che sul letto di morte aveva chiamato tutti i suoi personaggi. Ma noi – dirà chi si accinge a scorrere il catalogo delle opere di Carla dove spadroneggia un ébranlement del reale a tratti inquietante – noi che non ci troviamo sul letto di morte come Balzac e che non abbiamo nulla di cartaceo, chi potremmo convocare? E perché poi? 

Alla prima domanda rispondo che potremmo convocare i nostri possibili io. Dico possibili in quanto il nostro io naturale, immagine trasparente e pura di ciò che inevitabilmente vorremmo essere, mi sembra corrispondere a una visione pigra, o forse soltanto ideale, di ciò che l’autocoscienza occidentale pone in fatto di salute psichica, integrazione emotiva, completezza. È da ottimisti credere di essere ciò che si vorrebbe essere. Pensarsi invece come esseri perennemente in battaglia per una trasparenza che non si raggiungerà a causa di un deficit delle condizioni iniziali significa valorizzare tutte le prestazioni a cui siamo chiamati sia quando in-terpretiamo gli altri sia quando siamo interpretati dagli altri. Da questo punto di vista, l’io cessa di essere una funzione data dalla natura per diventare la natural competence che soggettivizza le modalità dei rapporti che ci rendono esseri attivi. In altri termini, potremmo considerare l’io come l’abilità innata a interpretare la parte che ci permette di fronteggiare al meglio problemi e avversità. Per questo, poiché i problemi mutano, e anche le avversità, devono mutare i nostri io. Insomma, l’io non sarebbe altro che la bravura nell’aggiornare domande e contro-proposte. Non so se ho soddisfatto anche il secondo quesito. Ciò che so è che nel predisporsi a un piano di vita consapevolmente sforniti di un io sostanziale, e senza nessun dio che ne convalidi o falsifichi le interpretazioni, ci vuole un certo ardire e un certo grado di fiducia.

 

Carlo Montaleone, 2019