PAESAGGI DELL’IDENTITÀ

(Catalogo Identità Mutevoli, Roma 2019)


L’identità personale è un problema di frammenti. O di dettagli. E di parole per cucirli insieme. Per trovarle, le mie parole, torno con la memoria nella stanza di Livia, al secondo piano di Palazzo Massimo alle Terme. Sono seduto al centro del meraviglioso paradosso di quella che fu una sala ipogea e un hortus conclusus, sapiente rappresentazione illusionistica e catalogo naturalistico di botanica e ornitologia di duemila anni fa. Una realtà inventata, dove le fronde più alte degli alberi sono mosse dal vento e «non è solo la varietà degli uccelli (69) e delle piante (23) che rende quanto mai “artificioso” il giardino, ma anche il fatto, più volte osservato, che vi sono mostrate in contemporanea fioritura specie che, nella realtà, fioriscono a distanza di mesi.» (1). Il mio ‘io’ è un campo di percezioni nel giardino dipinto sulle pareti della stanza e osserva, così come li osservava Livia, i finissimi dettagli nel campo di percezioni del paesaggio della sua vita.

Paesaggi, teatri, fotosculture
L’identità, allora? È quella che mi porto in tasca, stampata sul pezzo di carta ripiegato che rinnovo ogni tanto con un cambio di foto. E ancora: è il mio centro stabile e sicuro, me lo porto dentro (addosso? accanto?) per tutta la vita, sennò come so che io sono io, veramente e continuamente io? Di più: l’identità è una sostanza sopra-naturale (non è forse invisibile?), diversa dalla sostanza del corpo. È mente, coscienza, spirito, anima, ‘entità’ immateriali indagate dalla teologia e dalla divinazione, esplorate dalla filosofia e, in tempi più vicini a noi, dalla psicanalisi e dalle neuroscienze. Pertanto, io sono il mio me stesso unico, registrato e certificato, guida interiore incorporea e sussurrante, consapevole, ininterrotta e inalterabile? Paesaggio di cose, quello che vive nel giardino dipinto di Livia, o illusione?
Le foto-sculture di Identità mutevoli mostrano che la faccenda è complicata, nel senso proprio di cum-plicare, piegare insieme, involgere, ingarbugliare le cose. Un banale sequestro emotivo dice molte cose sull’inalterabilità dell’io, faccenda difficile da sbrogliare, quando sono in gioco pancia, nervi e cervello. Strana, la vita, che pretende tutta una vita per domandarsi se l’identità non sia una questione di processi neurobiologici e invenzione, di pressione arteriosa e inconscio. Mondo instabile, quello dell’identità, come capita a tante credenze dietro un’apparente inequivocità.
L’evidente tensione espressionistica di Identità mutevoli dice che siamo oltre i modi della ritrattistica fotografica, e tuttavia conferma che ogni soggetto è prima di tutto persona, o, a vedere meglio, più persone. Il senso di quello che sentiamo in questi sguardi ce lo ricorda la radice antica della parola: persona era la maschera teatrale. Identità mutevoli è rappresentazione, teatro di ruoli e apparenze, rivelamento di tracce nascoste di identità, che Carla restituisce plasticamente in sedimenti morfologici di pieghe, stratificazioni, asimmetrie. Vedo corrugamenti di paesaggi. Ogni volto, ogni personaggio di questo disorientante teatro di apparenze sembra esclamare all’osservatore: credi forse che io abbia in sorte la fortuna di conoscere me stesso?

Menti, corpi, mondi
Ma... come la mettiamo quando si scopre che nella faccenda dell’identità c’è pure un problema di sostanze e di mondi? Sostanza invisibile quella dell’identità, si dice in giro. E dove risiederebbe la sostanza del mio me stesso, o di qualsivoglia me stesso? In un universo impercepito, quello mentale-spirituale, separato da quello corporeo-fisico? Oppure sta nello stesso universo, quello che c’è, visibile, naturale, biologico, in questo unico mondo dove io vivo il mio me stesso? Ho forse esperienza di essere solo corpo in questo momento e solo mente un momento dopo? Vivo in ogni momento il mio me stesso corporeo-mentale. Se non percepisco l’esistenza di due universi di natura tanto diversa, dovrò concludere che il mio me stesso è una stessa sostanza corporeo-mentale, sensibile e mutevole, che si esprime con le onde della mente e con i sottili e potenti linguaggi del corpo in relazione con lo spazio, il tempo e i dati sensoriali che percepisco dal mondo e restituisco al mondo.
Il corpo – che ancora deve scrollarsi di dosso certe ingiurie apodittiche accumulate nel tempo – è vissuto in ogni istante come io sono il mio corpo, nel senso che il mio corpo è il mondo e, insieme, rappresentazione del mondo. Sono generato dal desiderio, ma de-siderare è superare una mancanza: de-sidus, appunto, senza (poter leggere le) stelle, la fortuna e l’amore, la salute e il futuro. È da questo ‘sentire’ una mancanza che ogni me stesso è desiderato da corpi e menti, e viene nel mondo. Che l’identità sia l’ostinatezza a inseguire un destino sotto cieli senza astri?
Eccomi al punto, il mio punto d’azzardo. L’identità personale è il mio me stesso corporeo-mentale che vive, è vissuto, percepisce e immagina, rifiuta e accoglie, desidera e subisce, si lascia permeare e muta, nel corso delle infinite vicende dell’esistenza. Provo una sensazione straniante quando osservo il mio me stesso (è la mia testa, in effetti) ritratto nel dittico delle fotosculture plasmate da Carla (figg. 17-18). Dopo il cum-plicare delle pieghe e delle stratificazioni che hanno eliminato dettagli importanti per un’immediata riconoscibilità del soggetto, rimane il paesaggio sensoriale dei miei dati somatici, sono una maschera, oltre la maschera sono un corpo. In Identità mutevoli è la sensorialità potente del corpo a sorprendermi. L’identità è corpo che agisce su se stesso e su altri corpi, sulle cose, che può fare e disfare il mondo. Corpo che è agito nella relazione con se stesso come oggetto e messa in scena, corpo-abito che vive nella relazione di amore, uso e seduzione con altri corpi, che può farsi e disfarsi secondo il grado di permeabilità all’essere agito sia da un altro corpo, sia dalla ‘realtà’ inventata o recitata per rappresentare un’ identità. L’altro corpo può essere tante cose: un me stesso-altro, un altro individuo o una comunità, una credenza o una macchina ‘intelligente’, un qualsiasi sortilegio ideologico o sistema strutturato, in apparenza meno prossimi alla pelle ma non meno temibili e condizionanti.

Accelerazioni, tecnomagie, mutazioni
E mentre cerco di fare i conti con le imprevedibili oscillazioni dell’identità, mi dico che bisogna capire come si ritrova, la medesima, nella dimensione etico-politica e nella piega tecnologica di questo unico mondo, dove vivo il mio me stesso in questo tempo. Già, cosa sta succedendo al corpo permeato dalla tecnologia? In ogni epoca la tecnologia ha segnato svolte nella vita individuale e sociale ma l’accelerazione tecnologica attuale è qualcosa di diverso. Secondo molti osservatori si tratta di una evoluzione che da lineare si è fatta esponenziale, ha cambiato e cambierà ancora, radicalmente, le identità personali e sociali.
Quando, una trentina di anni fa, qualcuno decise di imprimere una forte accelerazione al mondo con la human-computer interaction, traendone in poco tempo un enorme potere su ogni aspetto della vita economica e sociale, non si è curato delle possibili conseguenze, per esempio, sulla neuroplasticità di milioni di corpi-cervelli e sulle mutate relazioni che ne sarebbero derivate tra questi. Ugualmente, nessuna «mano invisibile della Provvidenza» si è curata di milioni di identità personali buttate in strada con una manciata di e-mail. Qualcun altro, evidentemente molto informato su quanto sta bollendo in pentola, annuncia al mondo che «Evolvendo, ci avviciniamo a Dio. L’evoluzione è un processo spirituale. C’è bellezza e amore, creatività e intelligenza, nel mondo: tutto proviene dalla neocorteccia. Dunque espanderemo la neocorteccia cerebrale e diventeremo più simili a Dio.» (2). Queste parole, che sembrano un update del teutonico Gott mit uns!, sono state pronunciate nel 2015 dal tecnocrate capo di Google (colosso tecnologico statunitense da 740 miliardi di dollari) e teorico della «singolarità tecnologica», il momento in cui il computer supererà le capacità del cervello umano. Sarebbe interessante discutere sulla relazione tra materia e dynamis, forma e atto, tecnopoteri e algoritmi, ma basta osservare che la dynamis di Google è ritenuta molto efficiente anche nell’ingegnerizzazione dell’elusione fiscale.
È un dato di fatto, quindi, che l’accelerazione tecnologica aumenta in modo esponenziale, in particolare nell’ingegneria genetica, nelle nanotecnologie e nell’intelligenza artificiale «forte». Può ritenersi fortunato chi beneficia del grande progresso tecnologico in campo biomedico, ma da almeno vent’anni e «nell’immediato futuro sussistono motivi per temere l’intelligenza artificiale: non perché questa ci rimpiazzerà emotivamente o spiritualmente, ma perché renderà molti di noi economicamente superflui, dunque emarginati.» (3).
Fino a che punto posso permettere che la tecnologia cambi il mio me stesso corporeo-mentale e sociale? Cosa mi succede, mentre sono immerso nell’istantaneità tecnologica e percepisco un senso di intossicazione? La generazione Duemila, nata digitale e connessa, si troverà sulla propria strada evolutiva a dover fare i conti con colossi ingegneristico-imprenditoriali lanciati a sviluppare sistemi di interfaccia tra noi stessi e tutto il ‘resto’ da noi stessi, in una partita evolutiva fatta di human-computer integration e di life-utilities, ‘create’ per facilitare la vita ed escludere selettivamente vaste popolazioni di corpi umani da ogni genere di processo produttivo, creativo e sociale. Stanno così le cose, sul cammino verso Dio.

Identi-kits e Life-like
Partiva da un disagio la ricerca di senso (identitario) che dodici anni fa Carla ed io abbiamo iniziato. Un disagio avvertito fuori e dentro di noi, nella vita di tutti i giorni. Volevamo comunicare ad altri le nostre impressioni. Questo produsse due progetti: Identi-kits e Life-like.
È del 2007 Identi-kits. La maschera della comunicazione: parole, forme, colori della mutazione, una mostra (in seguito installazione permanente) di dieci grandi quadri nella sede di un’azienda romana. È ancora il raffinato visual design di Carla a mostrare il gioco di identità fabbricate e simulate (figg. I, II, III). L’identità è messa in scena come qualcosa di fluido, che può formarsi, scomporsi, ricomporsi o svanire, immersa in una disseminazione di surrogati. In questa ‘realtà’ cangiante e accelerata la tecnologia è scienza o magia, intelligenza o irretimento? I kits sono le cassette degli attrezzi, equipaggiamenti, dispositivi, tecniche e trucchi per esibire e nascondere. Modalità imitative o mimetiche che utilizziamo per metterci in relazione con il mondo. Usiamo mezzi potenti, globali e sofisticati per ‘comunicare’, ma avvertiamo che qualcosa non va, la comunicazione si è trasformata in frastuono a senso unico. La nostra epoca sviluppa tecnologie che annullano le distanze e cambiano percezioni e comportamenti. Stiamo indossando abiti e vite virtuali (4).
Del 2009 è Life-like. Cinema e grafica, profezie e paradossi. I cinque grandi quadri della mostra (figg. IV, V, VI) sono costruiti prevalentemente con fotogrammi di The Truman Show (1998), Blade Runner (1982), La donna perfetta (2004), Simone (2001) e Batman (1989). Straordinarie finzioni che anticipavano quello che oggi avvertiamo come molto presente. Un fotogramma è la venticinquesima parte di secondo di un film. Può capitare che sia quel fotogramma a imprimersi sulla mappa della memoria e diventare una traccia di vissuto. Quei fotogrammi ci interrogano sui paradossi della ‘realtà’. Una realtà travestita? Truccata? Una trappola virtuale? Dipende da come guardi i paradossi. O da come guardi la realtà. Idee comuni, condivise e accettate, possono apparire come frammenti di film in cui puoi trovare tutto, oppure iperfinzioni di un tutto in cui non c’è niente. In fondo, è proprio il fotogramma di The Truman Show a ricordarci che nel grande reality vai a sbattere contro il nulla. Una vita-reality, come se fosse vita, può esistere con la complicità di un contesto contraffatto e di un pubblico irretito o connivente. Certo, da qualche parte c’è sempre un pulsante Exit che può farci uscire dalla finzione. Ma dove diavolo l’hanno nascosto? (5)

L’immagine e il corpo: Ferite e Mutazioni
Se Identi-kits rappresenta, sotto molti aspetti, il tentativo di tradurre visivamente, secondo i canoni del visual design, certe forme dell’identità, Life-like segna il passaggio tra un prima e un ‘poi’. Poi, Carla ha rimescolato l’ordine delle cose nel suo paesaggio identitario, tornando (per rimanerci) alla pura ricerca artistica. Voleva superare il confine tra determinato e indeterminabile. Una questione di libertà. Da quel momento, i paesaggi della rappresentazione non sarebbero più stati quelli del passato. Nel suo nuovo paesaggio espressivo inizia a comporre una sua personale morfologia dell’identità: i volti umani, prima in Ferite e oggi in Identità mutevoli, e i simboli monumentali della storia umana, rappresentati in Mutazioni, diventano forme plastiche, corrugamenti di superfici che sprofondano e riemergono improvvisi.
Ferite è un progetto che prende forma tra il 2014 e il 2015; nasce da un lavoro sull’immagine delle donne. Venticinque sguardi di donne rivelano, interrogano e accusano. Non è stato facile arrivare all’opera finale, dopo il ritratto fotografico. Piegare la carta che supporta l’immagine di uno sguardo non è soltanto rompere l’equilibrio formale raggiunto con il ritratto, è compiere un atto di profonda mutazione dell’immagine e del soggetto. Dopo questo atto, le immagini di Ferite esprimono quello che potremmo percepire nello sguardo di ogni donna che ha subito.
Il lavoro di ricerca avviato con Ferite porterà a Identità mutevoli, una riflessione sull’ambiguità e complessità di ogni individuo.
In Mutazioni, una mostra personale del 2018, la riflessione e lo sguardo si allargano all’identità collettiva nel suo rapporto con ogni sorta di monumentale ‘luogocomune’ della storia. Prende corpo la scena dei più celebri monumenti romani che parlano di grandi utopie. Le grandi architetture rappresentano comunità umane, epoche e, insieme, ideologie, valori dominanti e fedi religiose. Forse non esiste ideale rappresentato nella pietra che non abbia piegato il proprio trionfo in caduta, l’utopia in distopia. Il messaggio di Mutazioni è duplice: non esistono forme o idee assolute in cielo e in terra, tutte le forme di questo mondo sono perfette e imperfette, pure e impure; i grandi monumenti della storia umana domandano quale può essere, se ancora c’è, il senso di un loro monitus nella coscienza sociale del nostro tempo.

Eppure, eppure...
Come la vita nel giardino dipinto di Livia, l’identità è un paesaggio di cose. L’identità è cosa, fatta di cose, come tutte le cose di questo mondo, compreso il mio me stesso. È un paesaggio composito, fatto di fioriture simultanee che mai sono apparse simultaneamente. È un paesaggio fatto di strati, di sfondi, primi piani e sovrapposizioni, dove tutto si muove in ogni direzione. Tutto va in scena nel teatro dell’immaginazione e delle interpretazioni. Ogni strato custodisce innumerevoli tracce della vita. Vere, ingannevoli, sognate, desiderate. A volte nel paesaggio entra un vento che muove le forme e le cose. Viene il vento del pregiudizio, quello ‘identitario’, quello dell’intolleranza. A volte il paesaggio è percosso da un vento di tempesta che scuote tutte le cose. L’identità è una morfologia di paesaggi, mossi nei soli modi possibili del mutamento, della luce e dell’ombra. Esiste un ultimo strato, in un’ultima profondità? Un pavimento dell’identità? Potrebbe trattarsi della natura generativa e neurobiologica di tutte le cose viventi? Forse non avremo mai (per fortuna) prova e misura della natura dell’identità.
Eppure... porto con me una mappa del mondo. Identità personale è il nome che posso dare al paesaggio cartografato su questa mappa. Ma, si sa, paesaggio e mappa non sono la stessa cosa. La mappa è dentro di me, il mondo è il ‘mio’ mondo. Non può esistere un mondo diverso, oggettivo, vero quanto o più del mio. Di ‘reale’ c’è solo il mio mondo inventato. Accanto al mio mondo c’è il tuo mondo, che non conosco o conosco per come tu me lo rappresenti. Più in là c’è il suo mondo e innumerevoli altri mondi. Qual è il mio mondo ‘reale’? Quello dei dati sensoriali che mi arrivano attraverso le percezioni? Quello degli atteggiamenti che assumo nelle mie infinite apparenze? Quello di come mi vedono gli altri e di come mi vedo attraverso gli altri? Quello che comunico usando il mio corpo come oggetto di rappresentazione? Posso credere che la mappa del mondo disegnata nella mia mente e nel mio corpo sia la mia ‘identità’. Sulla mia mappa tutta spiegazzata avevo segnato un punto con una bella bandierina colorata. In quel punto di un tempo lontanissimo ‘io’ pensavo che la vita avesse uno scopo, quello di intraprendere un viaggio alla fine del quale ogni ‘io’ avrebbe potuto conoscere, volendo cercarla, la saggezza, quello stato che immaginavo di benessere psichico, in equilibrio tra l’avere senno e l’avere sapore. Poi molto vento è entrato nel mio paesaggio.

 

Gualtiero Tonna, 2019

 

 

Note

(1) Salvatore Settis, La villa di Livia. Le pareti ingannevoli, Mondadori Electa, Milano 2008, p. 6.
(2) Sono dichiarazioni pubbliche di Raymond Kurtzweil citate nell’intervista Ecco perché la
tecnologia cambierà radicalmente le nostre vite, resa dallo studioso Gerd Leonhard a «Linkiesta», marzo 2019. Gerd Leonhard, attento soprattutto ai processi di evoluzione della tecnologia nel futuro più prossimo, è autore del recente Technology Vs Humanity. Lo scontro prossimo venturo, Egea, Milano 2019.
(3) Matthew Crosston, Quanto è umana l’intelligenza artificiale?, in «Limes», n. 8 (Il fattore umano), 2019.
(4) Dalla presentazione del progetto Identi-kits, Roma 2007. © Carla Cacianti (immagini) e Gualtiero Tonna (testi).
(5) Dalla presentazione del progetto Life-like, Roma 2009. © Carla Cacianti (immagini) e Gualtiero Tonna (testi).